Donna che si dà, Elettra

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°Monique°
view post Posted on 31/3/2011, 21:08     +1   -1




Donna che si dà
Il ticchettio dell’orologio, il gocciolare del lavandino, il ronzare del frigorifero, e in lontananza un televisore acceso. Barbagli di luce sul soffitto buio, velati dalla turbinosa ascesa di anelli di fumo. D. volse lo sguardo verso la donna addormentata al suo fianco, Giovanna, ma mi chiamano Gianna, tu però chiamami Giò, ma con la J, Jo. Quella sera l’aveva incontrata per caso, l’aveva agganciato dicendogli che all’università era l’amica della compagna di stanza di sua sorella e che si erano conosciuti durante il trasloco: Ti ricordi? Ti ho fatto il caffè. Non si ricordava di lei, no. Ma lei aveva attaccato a parlare dell’università lasciata per seguire lo stronzo che l’aveva a sua volta, di recente, lasciata, lui l’aveva fatta parlare e aveva fatto quello che lei si aspettava, l’aveva portata a casa e l’aveva scopata. Niente di più e niente di meno. Lei si era spogliata con foga e con foga gli aveva fatto un pompino nel quale aveva concentrato tutte le banali tecniche da film porno, lo aveva leccato tirando fuori tutta la lingua, gli aveva volto uno sguardo che voleva essere provocante, ma con quel rossetto sbavato, a lui sembrò un clown, e quella ridicola e umiliante posa fu l’unica cosa che riuscì ad eccitarlo in un modo meccanico e avulso, e altrettanto banalmente l’aveva assecondata: le aveva afferrato i capelli, spinto la testa, ma non riusciva a venire, allora l’aveva presa, dopo averla rovesciata sul dorso. Lei non gli aveva chiesto il preservativo e lui non aveva voglia di metterlo. Ma poi lo mise. Chi cazzo la conosce, questa. Lei si era aggrappata a lui e aveva gridato scompostamente, fastidiosamente, deconcentrandolo: a quel punto voleva solo venire, oppure alzarsi, dirle di vestirsi, andarsene. Continuò a scoparla per educazione, ma senza tatto. La lascivia di lei lo irritava, i suoi gemiti gli sembravano insinceri, la sua pelle era lontana e madida. Stizzito l’aveva messa alla pecorina e le aveva intimato di mordere il cuscino: almeno ora griderai per una ragione valida, pensò sputandole sul culo, e l’aveva penetrata da dietro, ancora una volta deluso dal non incontrare resistenza alcuna, e quando lui avrebbe voluto sentirla gridare forte, lei non aveva gridato. L’aveva scopata rabbiosamente, aveva chiuso gli occhi e si era concentrato su di se. Alla fine le era venuto sulle natiche, aprendo gli occhi l’aveva vista passare le dita sul suo sperma e leccarlo, con un sorrisetto falso sulla faccia sporca di rossetto. Solo allora D. realizzò di non averla baciata e di non averne provato il desiderio di farlo. Il suo sperma su quella natica sconosciuta sembrava umiliato e triste. Si vergognò di essere venuto, di aver concesso intimità a qualcuno che non gli aveva dato confidenza, che non l’aveva messo a suo agio.
Il suono della televisione dall’altro appartamento era una canzone che lui conosceva bene e che amava. A un certo punto una chiara voce di donna ne cantò un verso. D. balzò, reggendosi su un gomito, gli sembrò di essere stato chiamato. Si alzò e andò nudo verso la finestra. Non sapeva nemmeno che l’appartamento di fronte fosse stato occupato, era sfitto da così tanto tempo che lui non si era premurato mai di chiudere le finestre. Ma ora la luce era accesa, e la tenda tirata solo a metà. Nella parte chiusa, vedeva chiaramente la sagoma di un corpo di donna che si muoveva flessuosamente a tempo di musica. Ogni tanto sottolineava un verso della canzone cantandola, e danzava restando celata dalla metà della tenda. D. vedeva chiaramente che quell’ombra apparteneva a un corpo fine e slanciato, le braccia in alto, sottili e dalla gestualità morbida, i fianchi rotondi, agitati piano, come il pendolo di un metronomo. Gli sembrava fosse di spalle, e gli sembrò anche di vedere le braccia abbassarsi e le mani scendere ad accarezzare quel corpo. Lui pregò ardentemente che lei si spostasse verso la parte aperta della tenda, voleva capire se era nuda o vestita, se era bionda o bruna, voleva che si girasse, che gli facesse vedere il viso, il seno e il pube, voleva sapere com’era la sua peluria, se aveva il sesso depilato o no, se aveva il seno piccolo o grande, se aveva i capezzoli minuti e rosei o grandi e bruni e turgidi da attaccarsi a succhiarli fino all’alba. Lei adesso danzava con le gambe chiuse che sembravano sfidare D., fletteva il busto in avanti descrivendo un semicerchio turbinoso, allargava le braccia, e una mano spuntò nella parte aperta della tenda: sembrava dirgli Vieni, avvicinati ancora di più. D. sentì il contatto del freddo vetro contro la punta del suo sesso e si accorse di essere in perfetta e completa eccitazione. Sempre in ombra lei si girò di profilo e lui potè vedere la rotondità dei seni appuntiti: si, sembrava fosse nuda e che avesse dei seni grandi e turgidi, desiderò leccarli e attaccarvisi come un bambino, a trovarvi calore, contatto, consolazione e compagnia. Conforto.
Finalmente lei apparve nella parte aperta della tenda, ma di schiena. Lui vide che era nuda per metà, e che sotto indossava una gonna aderente, lunga sopra il ginocchio e a vita alta, e i lunghi riccioli castani le scendevano a metà schiena, e lei agitava la testa, godendo del contatto della chioma contro la pelle nuda.
Lui seppe che lei sapeva di essere guardata, seppe che quello spettacolo era per lui. Seppe anche che lei l’aveva presumibilmente visto affannarsi in quel triste rapporto con la sconosciuta, in cui nessuno aveva preso e nessuno aveva dato. Nessuno si era concesso.
Ora quella donna sembrava volesse dirgli cose vuol dire darsi a qualcuno. Aveva dosato l’attesa attraverso la tenda, e ora si sfilava piano la gonna. Lui avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a lei, aspirare forte l’odore del suo sesso e dissetarsi col succo stillante e caldo. Avrebbe voluto pregarla e adorarla, chiamarla Amore e donarsi a lei. E lei, lo sapeva, lo avrebbe trattato come il suo padrone e servo, re e suddito, gli sarebbe appartenuta tutta.
Ora si: era nuda. Sotto la gonna non c’era niente e la donna si accarezzava tutto il corpo. Queste mani, sembrava voler dire, sono le tue. D. aveva afferrato il suo sesso e lo muoveva piano piano. Stavolta non aveva fretta di venire, voleva godere l’appartenenza di quella donna senza ansie.
Lei aprì le gambe e appoggiò il busto a un mobile, offrendogli la vista del suo sesso: rosa, gonfio, bagnato, orlato da soffice peluria scura. Immaginò il suo viso solleticato da quella peluria, mentre affondava la testa nell’apertura della natiche di lei, aspirando forte l’odore di quella carne aperta. Gli sembrò che quell’aroma stese saturando le sue narici e tutta la stanza. Le dita di lei spuntarono da sotto: si stava masturbando dolcemente, percorrendo le labbra del suo sesso allargandole, vi faceva entrare le dita e le ritraeva bagnate per riprendere a girare intorno e penetrare, posandosi, negli intermezzi, sul clitoride eretto come la punta di una freccia. D. era lì, tra quella gambe aperte, in quel sesso generoso e sereno. Sentì un gemito, come velluto, miele liquido, erompere dalle labbra celate di lei, e il suo sesso ebbe una contrazione più forte. L’orgasmo stava arrivando, e lui ripensò per un attimo a quello che aveva riversato sulle natiche di Giovanna detta Gianna ma tu chiamami Giò anzi Jo, avrebbe voluto riprenderlo, e insieme a quello, tutti i fiumi di sperma disperso in corpi aridi, vuoti, che non cercano e non trovano, che non concedono e che non lasciano traccia se non un vuoto un po’ più profondo. Riprenderlo e offrirlo a lei, la sconosciuta senza volto che aveva deciso di appartenergli, di regalarsi un po’ a lui, voleva farla nuotare nel suo sperma, vederglielo sulla pelle e tra le labbra, voleva vederglielo grondare dal sesso: lei si, gli avrebbe ridato valore.
Lei era un orgasmo degno di esplodere, lei era una donna che si concede, che lascia la sua traccia, una donna che ti prende tutto per intero, e tutta, interamente, si dà.

 
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