SAI TENERE UN SEGRETO?, dal web

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<Jocker>
view post Posted on 15/3/2012, 21:14     +1   -1




Non è novembre, come nei film, e non piove. Piero mi ha lasciata vedova in una bella giornata di primavera, mentre fioriscono i tigli e il sole torna a scaldare il cielo.
E non è la prima palata di terra sulla cassa a farmi capire che è successo davvero. Una manciata di ghiaia scura sporca e quasi contamina il mogano che tiene prigioniero l’uomo con cui ho diviso la mia vita per 47 anni. Ma non è questo il segno del distacco.
Il dettaglio che mi sta facendo sentire definitivamente la separazione da lui è la mano tremante e dolce di Martina, la nostra prima nipote, che stringe la mia, incerta se offrire o cercare conforto.

A diciassette anni la vita non prevede la morte, non la immagina nemmeno. E Martina, così stupita dal suo stesso dolore, così bella nel suo abito nero (prestato da chissà chi) che ne mette in risalto la pelle chiara e i capelli biondi, è in questo momento la gemma sul ramo che annuncia nuovi fiori, nuova vita.
È il segno per me che, dalla terra, l’amore di Piero sta germogliando ancora.
Stringendo la sua mano, ho dato l’addio al mio compagno. Senza aspettare che la fossa venisse colmata, mi sono voltata e ci siamo incamminate insieme verso l’uscita del camposanto, mentre dietro di noi si levavano le ultime preghiere.

Il funerale, sobrio e discreto, si è svolto nel paesino di campagna in cui abbiamo una vecchia casa, ormai poco utilizzata ma custode di tanti ricordi, e nel cui cimitero entrambi abbiamo scelto di essere sepolti. Il vecchio parroco è morto, al suo posto ha officiato un giovane sacerdote, quasi imbarazzato dalla sua poca dimestichezza con il dolore e dalla banalità delle sue stesse parole. Hanno assistito le nostre due figlie con i mariti, pochi parenti, qualche amico di lunga data.
Le mani ancora intrecciate, io e Martina guardiamo il piccolo gruppo risalire il vialetto per raggiungerci. Avanzano lentamente e questa attesa mi dà il tempo di posare lo sguardo sugli occhi di mia nipote, di un bel nocciola carico, segnati da una linea rossa di pianto sulla palpebra inferiore che contrasta con il nero dell’eyeliner su quella superiore. Sono occhi profondi e vivaci, nei quali rivedo i miei.

Mi sorprendo a pensare che avranno fatto innamorare più di un ragazzo. Anzi, lo so per certo, perché con Martina ho sempre avuto un rapporto molto aperto e sincero. Mi confida segreti, mi chiede consigli. All’insaputa di sua madre, mi racconta amori e delusioni. Mi chiedo spesso come veda questa vecchia nonna, un po’ bizzarra e insofferente alle regole. Se riesce a immaginare che anche io ho avuto la sua età, che ho amato, goduto, tradito. Che i miei occhi hanno sorriso, provocato, cercato altri occhi. Che il mio corpo, come il suo ora, ha offerto e ricevuto piacere.
Qualche volta, mentre provava l’orlo di una gonna o il rammendo di una camicetta, vedendola quasi nuda le ho detto quanto è bella e ben proporzionata. Il suo arrossire, appena attenuato da un timido compiacimento, mi ha dato la certezza di non essere la prima ad averle rivolto un tale complimento. Non so se ha già fatto l’amore. Questo non me l’ha detto. E non credo che, come spesso di dice nei romanzi, lo capirò con un’occhiata. È un segreto suo.
Nel sorriso che ci scambiamo mentre i parenti si avvicinano c’è tutto questo, ma dubito che lei, nel ricambiarlo, se ne sia accorta.

«Vorrei chiedervi un piacere», domando a tutto il gruppo. «Ci potete lasciare sole un quarto d’ora? Vorrei che Martina mi accompagnasse a rivedere la casa…».
Non è una domanda, ma una scelta. E nessuno si permette di contraddire una vedova nel giorno del funerale del marito. Fioccano i «certo», «figurati», «andate pure, vi aspettiamo qui», «magari ci prendiamo un caffè»…

La casa è poco distante e percorriamo il tragitto senza sciogliere le mani e senza parlare, ma scambiandoci ogni tanto uno sguardo affettuoso.
Armeggio con la serratura: il portone non ne vuole sapere di aprirsi.
«Posso?», chiede Martina prendendomi la chiave. E con poco sforzo la fa girare nella toppa. Sorride.
«È tanto che non venivi qui, nonna?».
«Un paio d’anni, da quando il nonno si è ammalato. Ma sai che qui dentro il tempo si è fermato. Sarà tutto ancora come una volta. È il mio rifugio segreto».

L’odore di chiuso della sala non può mascherare il profumo che per me questa casa ha sempre avuto. È un’emozione intensa, primordiale, che fa affiorare alla mente i ricordi di una vita con Piero.
Quasi per reazione, apro con decisione le vecchie persiane, tiro le tende, lascio che il sole risvegli i mille oggetti che la popolano, le foto incorniciate, i mobili…
Sento le emozioni sopraffarmi e ho bisogno nuovamente della mano di Martina per avvicinarmi alla credenza che fu di mia mamma.
C’è appoggiato un porta-ritratto, piuttosto impolverato, ma che dietro al vetro opaco svela ancora una foto di me e Piero da giovani. Siamo in piedi sul molo a Rapallo, dove venivamo entrambi in vacanza con le nostre famiglie. Io indosso uno di quei ridicoli costumi che si usavano allora. Piero ha gonfiato i pettorali per sembrare più muscoloso. Siamo fianco a fianco, ma i nostri corpi non si toccano. Non eravamo ancora fidanzati e non sarebbe stato bene farsi riprendere in atteggiamenti troppo intimi. Mi tornano in mente le foto che Martina mi ha mostrato sul suo blog: ragazzi e ragazze che si abbracciano felici e liberi. Che differenza!
Un sorriso mi affiora alle labbra, ripensando al momento in cui abbiamo scattato quell’immagine. Avevamo appena fatto l’amore, cosa vietatissima, naturalmente. Anzi, un reato, visto che non eravamo ancora maggiorenni. Piero mi aveva condotto sotto al pontile, al mattino presto. Impacciati in quei costumi ascellari, eravamo riusciti a liberare le zone necessarie e ci eravamo amanti con foga, eccitati e spaventati all’idea di essere scoperti.

«Siete carinissimi in questa foto!», dice Martina stringendosi a me. «Si vede che eravate innamorati».
Il ricordo di quell’amplesso subacqueo svanisce di colpo, come un palloncino scoppiato. Mi riprendo in tempo per replicare: «Avevo la tua età, sai?».
«E in questa?».
Martina mi porge una cornice scheggiata che racchiude una stampa sbiadita. Si vede un ragazzo in tenuta militare che sorride all’obiettivo. Nel suo sguardo c’è un velo di tristezza.
«Piero nel ’43, durante una licenza. Se ricordo bene, gliela ho fatta appena prima che ripartisse».
Ometto che eravamo rimasti due giorni in casa, a fare voracemente l’amore. Senza tregua, senza stancarci. Ometto anche che Piero non era solo il marito, padre, nonno affettuoso che Martina ha conosciuto. Era anche un ottimo amante: determinato, fantasioso, attento. Un uomo d’altri tempi, di quelli che danno la precedenza alle donne, anche nell’orgasmo. La natura l’aveva dotato di un eccellente strumento di piacere e l’eccitazione gli procurava erezioni piene, decise e durature, delle quali io mi giovavo abbondantemente.

Per i nostri tempi, eravamo piuttosto trasgressivi. Abbiamo sempre vissuto il sesso come una festa e non ci facevamo mancare nulla, sfidando convenzioni sociali e divieti familiari. Quando abbiamo scattato quella foto, per esempio, non eravamo ancora sposati e, per stare insieme, avevamo mentito alle famiglie e ci eravamo rifugiati a casa di un amico, assente per qualche giorno. L’avevamo chiamato “il nostro addestramento reclute” ed è stato in quell’occasione che abbiamo esplorato le nuove sensazioni del mio ingresso posteriore.

Il ricordo di quei giorni di passione si snoda come un filo e dirige il mio sguardo verso il grande tavolo al centro della stanza, coperto da una tovaglia ormai lisa. Se ne accorge anche Martina che si avvicina affettuosa: «Ti ricordi, nonna, che tavolate? E che festa! E che piatti da leccarsi le dita ci preparavi!».
Annuisco, con l’aria della brava vecchietta che ripensa a quando ancora stendeva a mano le tagliatelle. Ma in realtà sto rivedendo me e Piero, sposati da poco, intenti a battezzare il tavolo appena comprato. Io sono appoggiata con il petto sul piano, e lui mi sta penetrando da dietro. Mi afferro alla tovaglia, che inevitabilmente scivola e faccio cadere un piatto. Poi, con un movimento aggraziato, mi giro e gli offro il mio sesso, nel quale egli affonda golosamente la lingua. Che festa! E che orgasmo! E come mi leccava mentre mi toccava con le dita!
Ma tutto questo, a Martina non lo dico. Annuisco di nuovo e le mostro il cantonale, che lei certamente ricorda perché fino a pochi anni fa vi tenevamo gli album delle foto di famiglia.
«Le foto… mi piaceva così tanto guardarle!».
«Già».
Il cassetto delle foto.
Ma per me quello è il cassetto dei nostri giochi. Sono gli anni Sessanta. L’amore si è fatto più libero, e noi, sempre avanti coi tempi, stiamo sperimentando i primi vibratori. Piero ne ha portato uno dall’America. Altri sono venuti con il tempo. Li tenevamo chiusi a chiave nel cassetto superiore e spesso diventavano il diversivo per una serata più accesa del solito, quando i figli erano fuori o dormivano profondamente. Abbiamo testato diversi modelli: realistici, curvi, doppi. Quando ho dovuto disfarmene, per raggiunti limiti di età, è stato un dolore.

«Sei stanca, nonna? Vuoi sederti?», dice Martina, conducendomi dolcemente al divano, sul quale mi lascio cadere esausta dalla giornata e dal peso dei ricordi.
«Lo chiamavo “il divano del nonno”, vero?».
«Questo, cara, era davvero il divano del nonno… Il suo posto preferito».
«Mi sembra di vederlo ancora, seduto lì».
Anche a me sembra di vederlo.
Ma non è seduto: sta in piedi davanti ad una nostra cara amica che, nuda dalla vita in giù, si dedica abilmente a consolidare con la bocca una già perentoria erezione. Niente di così strano, visto che io sto rendendo lo stesso servizio al marito di lei, che ricambia l’attenzione esplorando con dita esperte le pieghe del mio sesso. Sulla poltrona a fianco, un’altra amica si sta accarezzando, aggiungendo nuovo piacere a quello che già le provoca la lingua di un uomo inginocchiato tra le sue cosce.
È solo un fotogramma di una delle nostre celebri feste. I figli cresciuti e usciti di casa, abbiamo ridato vigore alla nostra vita sessuale ricostruendo un giro di “amici per sesso” con i quali abbiamo condiviso splendidi weekend in campagna. Un sesso più maturo, apparentemente trasgressivo ma probabilmente segnato dalla paura per il tempo che passava.
Orgasmi dal gusto pieno, come vino invecchiato. Vissuti con facilità e libertà, senza la preoccupazione di essere all’altezza o di fare bella figura. Molto diversi da quei godimenti un po’ strappati e nervosi della giovinezza.

«Nonna, vorrei dirti una cosa».
Deve essere importante, visto che Martina, per dirmela, mi sta stringendo il braccio.
«Però tu prometti di non dire niente alla mamma».
«Come sempre, dimmi».
«Prometti».
«Prometto».
«…».
«…».

«Questo divano, per me è speciale».
«Anche per me».
«Ma non solo per il nonno».
«Nemmeno per me solo per il nonno».
«Vedi, nonna… L’anno scorso ho preso di nascosto dal tuo armadietto le chiavi di questa casa. E ci sono venuta con Luca…».
Ho già capito naturalmente, ma voglio che sia lei a dirlo.
Percui, taccio.
«Insomma, vabbè, nonna, hai capito… su questo divano abbiamo fatto per la prima volta l’amore!».
La guardo, cercando di mettere almeno un po’ di stupore nel mio sguardo, che invece comunica soprattutto affetto, e un po’ di invidia…

Martina mi sorride. Riecco il rossore timido e compiaciuto:
«Ma che stupida a dirti queste cose! Chissà come mi giudicherai! Però, dai, nonna: ai tuoi tempi era diverso, ora i tempi sono cambiati…».

 
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