CALIBRO 18, dal web

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<Jocker>
view post Posted on 15/3/2012, 21:20     +1   -1




Simona prese in mano il pene dell’uomo e abbassò la pelle del prepuzio.
Diede un’occhiata a Elena, in piedi al suo fianco:
«Sarà un 18. Passami il 18».
Prese dalle mani della collega la busta sterile, l’aprì e ne estrasse il contenuto. Con rapida sicurezza vi versò sopra del gel e, stringendo appena più forte, cominciò a introdurre con delicatezza il catetere.

«Te la ricordi quella volta che l’hai messo a quel ragazzo del Senegal? Che calibro era, un 20?».
«Certo che me lo ricordo».
«Tu sei la regina dei cateteri!», scherzò l’anestesista.
«Guanti di fata!», completò Elena.
Una risata divampò nella piccola sala operatoria. Regnava un’atmosfera leggera, serena, quasi gioviale, non fosse stato per quell’uomo cinquantenne che stava addormentato sul tavolo.

L’uretra opponeva qualche resistenza e Simona avanzava con cautela. Le cadde lo sguardo sul glande, una grossa cappella a forma di fungo, con due piccole macchie scure vicino al bordo.
Si sa che i fenomeni di déjà-vu sono frequenti, ma l’infermiera non si sarebbe mai aspettata di provarne uno in quel momento. Guardò nuovamente il sesso dell’uomo.
«Non mangiartelo con gli occhi, mi raccomando!», commentò Elena.
Simona non diede cenno di aver inteso. Quel pene le stava parlando.
Sembrava impossibile, eppure lo conosceva. Era abituata a vederlo un po’ più turgido di così, ma l’aria le era familiare. E il ricordo la spingeva a forza indietro nel tempo. Praticamente in un’altra vita, otto anni prima.

Lei studentessa alla scuola infermieri.
Lui avvocato.
Lei escort per pagarsi gli studi.
Lui cliente per divertirsi.
Lei stronza quel tanto che basta, che la professione richiede.
Lui perso. Completamente.

Sentì il sondino di silicone entrare in vescica e meccanicamente prese a gonfiare il palloncino, mentre un filo di urina colorava di giallo il tubo.
Istintivamente alzò gli occhi per guardare in viso il paziente, ma un telo sterile nascondeva il volto. In mancanza di riscontri oggettivi fu il ricordo a prendere il comando della sua mente.

Adesso era con lui. Il loro ultimo appuntamento, al solito motel. Nemmeno per quell’occasione aveva voluto fare eccezioni: il solito compenso, piuttosto caro; il solito tempo, due ore, non un minuto in più.
Un sesso passionale, ben fatto, godibile.
Lui era un buon amante, attento, premuroso. Forse era proprio per questo motivo che Simona aveva deciso di non vederlo più. Era troppo amante.
E lei aveva bisogno di clienti, non di uomini che le incasinassero la vita.
Soprattutto non di uomini sposati, più anziani, troppo benestanti, che le incasinassero la vita.
Ma non glielo aveva detto. No. L’indomani aveva cambiato scheda al cellulare ed era scomparsa.

«Pronti? Incido». Saverio, il chirurgo, alzò la destra e diede un’ultima occhiata circolare sulla sua equipe. Quando incrociò lo sguardo di Simona non si arrestò. In ospedale era estremamente professionale, niente lasciava immaginare che i due fossero sposati. Il lavoro era lavoro, la famiglia famiglia.
Una famiglia un po’ in difficoltà, forse. Ma pur sempre famiglia. Con una bambina piccola ad allietare la casa. E con non pochi problemi tra loro due.

Ormai che c’era, che un ponte si era creato tra le sue due vite, non poteva non fare i paragoni tra ciò che era oggi e i sogni che aveva da ragazza. Ripensò ai clienti che incontrava, alla tristezza che le mettevano quegli uomini dalla doppia vita. Ai suoi sogni per una storia diversa, pulita. Soprattutto non squallida. E ora si trovava alle prese con un marito probabilmente puttaniere, certamente non più innamorato. Svogliato a letto e incapace di riprendere in mano il loro rapporto.

E rivide Giulio. Così ingenuo, così travolto dagli avvenimenti. Da quella prima, esitante telefonata con cui aveva risposto al suo annuncio. Giulio, così buono dentro, ma anche fragile.
Così “cliente per caso”. Gli aveva voluto subito bene, aveva dovuto tenerlo a distanza. Lei era quella “forte”. Che poneva i limiti, conduceva la danza, concedeva e negava. Lui seguiva. Avrebbe accettato qualsiasi cosa da lei.
E così, aveva dovuto prendersi anche la responsabilità di decidere quando era il momento di staccare la spina. Perché amarlo era un lusso che non poteva permettersi.

Fingendo di controllare la sacca del catetere, Simona diede ancora uno sguardo a quel pisello, singolarmente dotato di prolunga. “Non credevo che avesse un 18”, pensò, ridendo fra sé.
«Incido», disse Saverio, sicuro. E la lama aprì un solco nell’addome dell’uomo.

“La bella pancia di Giulio, è un po’ ingrassato ora…”, pensò l’infermiera, rivedendosi a cavalcioni su di lui, la sua posizione preferita. Ormai era sicura che fosse lui. E si concesse anche il lusso di guardare Saverio concentrato dietro alla mascherina senza arrossire.
Ma dentro un turbine la scuoteva. Era come se avesse aperto una porta chiusa da tempo. Una sua vita parallela di cui ovviamente il marito non sapeva nulla, ma che anche lei credeva aver dimenticato.

* * *

È un bel giorno di primavera. Giulio guida nervoso, quasi sbatte contro la sbarra uscendo dal parcheggio del motel. Sono passate esattamente due ore da quando vi è entrato ed è più leggero di alcuni bigliettoni. Ma, quel che più conta, ha una brutta sensazione sulla pelle.
Il sesso con Simona è stato bellissimo come al solito. Passionale, ben fatto godibile. Sono una coppia affiatata, ormai, e quelle due ore sono state belle per entrambi. Di questo è sicuro.
Non è quello il problema.
“Sono uno stupido. Stupido stupido stupido”, si ripete l’uomo. “Come ho fatto a pensare che ci fosse altro?”.
Per carattere e per abitudine professionale, Giulio ammette difficilmente di avere torto. Piuttosto preferisce provare a rigirare la realtà a suo favore. L’imputato è innocente fino a prova contraria. C’è sempre una possibilità fino alla sentenza del giudice.
“E la sentenza è arrivata”, rimugina.
È un suo vezzo, una sua reazione davanti ai problemi. Ne fa l’analisi ad alta voce. Si fa domande e si dà risposte.
«Da cosa pensavi che non fosse solo un rapporto escort-cliente?».
«Dal feeling, da come ridevamo, dal tempo passato insieme».
«E non ti è mai venuto in mente che potesse essere tutta una finzione? Ben recitata, ma pur sempre finzione?».
«Mi oppongo, vostro onore, il collega cerca di influenzare il teste!».
«Obiezione respinta. Risponda».
«Credevo, volevo credere che fosse così. Era così!».
«Sei un uomo sposato, hai una buona posizione, un buon matrimonio. Che cosa ti ha spinto in questa avventura?».
«Forse… volevo sentirmi ancora uomo, seduttore, cacciatore. Un uomo, a quarant’anni è estremamente fragile. E una ragazza, a venticinque, estremamente potente».
«E quando hai capito di esserti sbagliato?».
«Quando ho cercato di baciarla. E lei mi ha respinto. Oggi».

Giulio scoppia a piangere come un bambino a cui sia esploso un palloncino. Stringe il volante con entrambe le mani. Chiude gli occhi al semaforo, lasciando passare il verde e i clacson nervosi degli altri automobilisti.
È travolto dalla sua stessa fragilità.

* * *

«Simona, stasera faccio tardi».
L’infermiera si voltò di scatto sentendo la mano del marito sulla spalla. Da donna attenta ai dettagli qual era, notò subito un filo di incertezza nella voce e una eccessiva durezza nella stretta.
«Lavoro?».
«Già».

Una barella traballante, spinta a grande velocità da un portantino centometrista, li costrinse a separarsi per un attimo. Il tempo sufficiente per prendere due direzioni diverse lasciando dietro le spalle un «ciao» poco convinto.

“Pallista”, si disse la donna. “Sarai a scoparti qualche collega. Li conosco gli uomini”.
Prese il corridoio a passi veloci, nervosi.
Spinse la porta antipanico.
Scese le scale.
Entrò nello spogliatoio dei paramedici.
All’armadietto di fianco al suo Simona ritrovò Elena che prendeva la borsa e il cellulare.
«Simo, che faccia! Qualcosa che non va?».
«No, bene. Bene. Sì, bene».
«Capito, non starai pensando ancora al pisello di oggi? Sei proprio affamata! Dai, vado. A mercoledì».

Simona afferrò il collo del camice e prese a sfilarlo.
Si bloccò.
Scosse il capo.
Uscì dallo spogliatoio.
Percorso inverso.
Scale.
Corridoio.
Reparto solventi.

“E se non fosse lui?”.
“E se mi sono sbagliata?”.
“E se non volessi rivederlo?”.
“Ecco, è questa la domanda”.

Stanza 209.
Letto 4.
Un tuffo al cuore.
Un po’ invecchiato. Bianco per l’operazione.
Addormentato.
Ma lui.
Lui.

Un vulcano esplose nella sua mente. Un terremoto che le fece perdere l’equilibrio. Lapilli di ricordi si abbatterono su di lei, incenerendo la poca serenità residua.
Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, che lo teneva distante non per allontanare lui da lei, ma lei da lui. Non per proteggersi ma per proteggerlo.

Era una necessità del suo lavoro. Una scelta obbligata e costosissima che aveva dovuto compiere.
Ogni “no” che gli aveva detto era uno strappo dentro. Ma era anche il prezzo della loro libertà. Fino all’addio definitivo, che non aveva nemmeno voluto comunicargli.

Sapeva che lui le aveva voluto bene davvero. E anche lei a lui, in fondo.
Era sicura che lui l’avesse ancora cercata. Ma tutto ciò che le restava era quella sua mail, l’ultima prima che chiudesse anche l’account hotmail: «Sei come un oceano in burrasca, e io così fragile non so come non aggrapparmi a te, mia unica scialuppa. Ma forse verrà un giorno in cui le parti si invertiranno e tu verrai in cerca di me. Quel giorno spero di esserci e di aprirti le mie braccia».

«Scusi? Sono la moglie di Giulio Mandelli. Posso vederlo?».
Dopo il vulcano, l’iceberg.
Simona restò impietrita, come se fosse stata sorpresa in flagrante adulterio.
Poi si ricordò che, vista con gli occhi della moglie, la situazione era molto più ordinaria: un malato appena operato assistito da un’infermiera.
«Certo», balbettò.

La donna si avvicinò al letto. Camminava piano, timorosa di rompere qualcosa. Si chinò sul marito e gli appoggiò un bacio lieve sulla bocca.
Una carezza sul volto.

Si voltò verso Simona.
Una lacrima le scendeva sulla guancia.
«Come sta?».
«Bene, direi bene. L’operazione è stata più semplice del previsto».
«Lei non sa che spavento mi sono presa! Ho pensato di perderlo…».

Scoppiando a piangere, la donna abbracciò d’istinto Simona, decisamente a disagio.
«Mi scusi… Mi sono lasciata andare. La tensione, sa. È che… vede, ci vogliamo così bene. Ne abbiamo passate tante! Oddio, mi scusi se mi sfogo così. E non ci conosciamo neanche!».

Una guerra si stava combattendo nel cuore dell’infermiera. Fuggire, come sarebbe stato saggio in un tale frangente? Restare, come l’istinto suggeriva?
Era donna istintiva. Restò.
«Si figuri, la capisco», rispose poco convinta delle sue stesse parole.
Le due donne si sedettero sul divanetto della camera (lusso del reparto a pagamento) con quella simmetria che generalmente rivela anche una sintonia interiore.

«È strano, sa? Quando si vuole bene a un uomo per tutta una vita. E si è lottato per tenere insieme il rapporto. E proprio quando ti sembra che le cose stiano andando finalmente bene… be’ lui rischia di lasciarti lì sola».
Simona deglutì. La donna le aveva preso la mano. E nulla sembrava arrestare quella confessione ispirata dalla paura della morte.
«Vede, c’è stato un momento, una decina d’anni fa, in cui lo sentivo così lontano, credevo avesse un’amante, che stesse per lasciarmi. Un giorno lo vedo tornare a casa sconvolto. Mi sono detta “ci siamo. Se ne va”. È stato arrabbiato per una settimana, e poi una mattina mi ha baciato e mi ha detto: “Ho capito una cosa, forse tardi. Ti amo come non ho mai amato nessuna donna”. Da lì è iniziata la nostra ripresa».

«Ctt ctt… mmmmmm…».
La voce proveniva dal letto 4.
Le due donne si voltarono di scatto.
La moglie scattò in piedi.
L’infermiera reagì con minore rapidità.

«Il catetere… mi fa male il catetere», ripeté l’uomo con voce impastata.
«Giulio!», esclamò emozionata la moglie. «C’è qui l’infermiera. Adesso te lo rimette a posto…».
Poi voltandosi verso il divanetto, ormai vuoto:
«Signorina?
Signorinaaaaa?».

Osservò stupita la stanza e la porta socchiusa della camera 209.
«Oddio, che stupida! Forse ci vuole un infermiere uomo per queste cose…».

 
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